Principali riferimenti: Ritorno del figliol prodigo, 1662, Rembrandt; Luca 15, 11-32
W: Bentornato P.E. come stai?
P: Felicemente vivo. E tu, mio caro?
W: Io impegnato ma bello felice, grazie. Che dici incominciamo col nostro incontro?
P: Ti avevo proposto la parabola più famosa di tutto il Vangelo, se ricordo bene.
W: Ricordi bene, insomma oggi vediamo il “best seller” del Vangelo.
Un padre misericordioso

P: Già. Il figliol prodigo. Anche se, con più acume, qualcuno ha ribattezzato questo testo come la parabola del Padre misericordioso. Ma poi ci arriviamo.
Partiamo invece dal fatto che, nonostante lo sforzo edificante dei predicatori, pare proprio che a Gesù piaccia scegliere personaggi provocanti per le sue narrazioni.
Ricordi l’altra volta il Samaritano? Come se ad un ebreo integralista dell’odierno Israele dicessero: guarda che bravo quel Palestinese. O, per stare all’attualità, se ad un Ucraino sotto assedio, si volesse indicare a esempio un Russo.
Oggi colui che viene fatto oggetto delle premure del padre che lo riaccoglie è un tipo da sberle: figlio cadetto di un possidente terriero, viziato e scansafatiche, a un certo punto decide di mollare tutto e andare a spasso per il mondo a godersi la vita. Naturalmente, con i soldi di papà. Ecco il figliol prodigo.
W: Certamente queste figure così provocatorie hanno anche una funzione “accattivante”. Attirano un po’ l’attenzione del lettore anche poco curioso. Ma oltre ciò, rendono molto bene l’idea e spiegano con efficacia quello che Gesù vuole comunicare. Anche se per essere onesti, pare che non abbiamo ancora capito molto del suo messaggio…
Comunque questo figliolo mi sembra che non abbia imparato nulla dal padre, non abbia appreso come vivere.
P: Che vuoi che ti dica? Capita anche nelle migliori famiglie. Per la verità, il pover’uomo non sembra essere stato particolarmente fortunato. Il racconto di Gesù mostra come anche l’altro, il maggiore, non sia proprio questa grande consolazione. Vero, gran lavoratore, dalla mattina alla sera nei campi, obbediente allo scrupolo, rispettoso del padre al punto da non toccare nulla delle sue cose, ma … dà la sensazione di ritenersi uno schiavo più che un figlio.
W: Interessante. Una famiglia che probabilmente vista “da lontano” poteva sembrare un modello per molti, invece si mostra molto fragile. O se vogliamo una famiglia con i problemi di molti. Ma voglio lasciare da parte ogni giudizio e semplicemente analizzare i fatti e gli eventi per capire, o almeno provare a capire, il messaggio che ci sta dietro.
Il figlio che si incorona bastardo

P: Bene. Ecco i fatti. Questo bell’elemento, il piccolino, un giorno si sveglia e va dal babbo a raccontargli la sua intenzione di far su il suo fagotto e andarsene. “Padre, dammi la mia parte di eredità!”, intima perentorio.
“La mia parte”, perché secondo il diritto dell’epoca, al secondo spettava molto meno che al primo. Ma c’è un problema. Tu, se facessi ora la stessa scelta, cosa riceveresti?
W: Probabilmente un biglietto di buona fortuna con un secondo biglietto con scritto: “Torna se dovessi avere bisogno”.
P: No, i tuoi ti darebbero anche qualche soldino per uscire, almeno per il treno e la stanza d’albergo per qualche giorno. Ma poniamo il caso che tu, non contento, ti rivolgessi al giudice per esigere quanto hai chiesto. Cosa riceveresti?
W: Sinceramente non ne ho idea. Decisamente non è il mio campo di studi, né di interesse. Ma sarebbe bene che ne capissi di più. Per ora però chiedo a te di dare la risposta.
P: E io te la do. Ma alla seconda domanda dovrai rispondere per forza. Nulla. Secondo te, come mai? Leggi bene la richiesta del ragazzo: “Padre, dammi la mia parte di eredità!”.
W: Perché l’eredità, per l’appunto, si eredita quando i genitori vengono a mancare. Come avevamo già detto anche nell’articolo precedente, tutto ha un suo tempo. Così per la morte, così anche per l’eredità.
P: Proprio così. Il nostro simpatico ragazzo dice al genitore: tu per me sei morto, spartiamo. Un piacere avere un figlio così.
Il padre non fa una piega, preleva il dovuto – anzi, ciò che dovuto non è – glielo consegna e lo lascia andare.
E questo comincia a vivere, secondo il suo progetto: ha le tasche gonfie di quattrino e se la spassa. Ma sai come va: se spendi senza lavorare, prima o poi i soldi finiscono. E gli amici che avevano condiviso la tua generosità a mangiare, bere e divertirsi – quell’altro, poi, per non lasciare troppi sottintesi dirà: “questo tuo figlio che ha consumato i tuoi soldi con le prostitute …” – quando la sorte cambia, svaniscono come la neve al sole. Per giunta, non è neppure fortunato.Nel paese che si è scelto, arriva persino la carestia.
E il nostro talento, decide che è il caso di mettersi a lavorare. Ma, appunto, il lavoro non c’è.
Finisce a pascolare i porci. Che, giusto a completare il quadro, per gli ebrei sono animali immondi!
W: Mi piace molto questa ultima parte, dove il ragazzo finisce in mezzo ai porci. Spiego un attimo il perché. L’ambientazione fa parte del personaggio stesso che ci è presente, rispecchia la condizione stessa del soggetto. Quest’uomo ha vissuto come un maiale, nel senso che si è cibato di qualsiasi cosa trovasse nel suo cammino, senza grandi distinzioni. E’ normale, mi viene da dire, che se vivi come un porco finisci a vivere coi porci. Ognuno costruisce la propria vita soprattutto a partire dalle relazioni che instaura e queste nascono soprattutto da come uno vive.
P: Credo che sia la stessa cosa che ha pensato anche suo fratello. Ops. Una cosa da notare quando vai a rileggerti il testo: il figlio maggiore non lo chiamerà mai “mio fratello”. Mentre si lamenta con il padre, continua a ripetere: “questo tuo figlio”, come dire: con me – e lo intenderei in senso letterale – non ha niente da spartire. Già, quello che c’era da spartire, se l’è già preso e l’ha dissipato. E forse anche lui pensava che, da spartire, non ci fosse altro che i possedimenti di famiglia.
Comunque sia il ragazzotto, lì in compagnia dei porci, inizia a riflettere sulla propria vita, su cosa era e su cosa è diventata.
W: Penso che questa “caduta” che lo porta a specchiarsi in quello che è diventato lo abbia in verità salvato dalla sua miseria. E’ stata, mi sembra, come una rivelazione improvvisa. Probabilmente se non fosse finito in miseria e avesse avuto fortuna trovando altri soldi, per esempio, non avrebbe mai capito che stava vivendo male.
Ma dopo questa presa di coscienza riesce davvero a cambiare la sua vita? Esce dal porcile non più maiale, ma uomo?
P: Bello e molto commovente. Se avessi scritto io la parabola, probabilmente avrei seguito la tua scia.
Macchè.
Racconta Gesù:
Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Lc 15, 17-20
P: Vedi, è vero che c’è un “rientrare in se stesso. Ma, alla fine, rimane al suo livello: capisce che lì non si mangia e che a casa da mangiare c’é, “pane in abbondanza”.
E va a mendicare un pezzo di pane. Se vuoi, è anche onesto: la mia occasione l’avevo e me la sono giocata. Forse letteralmente, ancora una volta. Non c’erano i video giochi ma i dadi non mancavano.
Se, in nome dell’affetto, il padre gli avesse dato la possibilità di una vita meno – si può dire, visto l’ambiente dei porci? – di merda, sarebbe andata bene così.
Forse persino il figlio maggiore, magari cogliendo l’opportunità di fargliela pagare un po’ ogni giorno, non avrebbe detto di no a una simile magnanimità.
W: Devo ammettere che ci metto sempre un po’ troppa buona fede. Cerco di trovare sempre il buon finale o il riscatto dell’uomo che si “alza in piedi”. Direi che stavolta, come altre, il nostro protagonista non ha fatto proprio quello che si definisce “step-up”. Ma penso che il personaggio a cui potremmo dare un po’ di rilievo in questa parte finale sia più che altro il padre. Il padre che era stato riconosciuto come morto dal figlio, ora vede lo stesso figlio ripresentarsi a lui per chiedergli da mangiare. Insomma, già gli aveva dato più del dovuto e ora si aspetta che lo sfami.
P: Che dici, se lo fa, in fondo è proprio un buon uomo, non trovi?
W: Sì, anche se non ne sono convintissimo. E’ un po’ umiliante in fondo per il figlio ricevere una certa grazia, di fronte all’intero paese penso. Probabilmente tutti sapevano dell’accaduto.
P: Eppure, l’altra volta, per Zaccheo, non hai giudicato umiliante la scelta di Gesù. Tutti sapevano che Zaccheo era un ladro, un avido approfittatore, uno che si è fatto con i quattrini di quelli che lavorano sodo. E Gesù è entrato in casa sua.
Anzi ti dirò di più. Quando inizia a raccontare queste storielle – ne infila tre di seguito – lo fa proprio per questo:
I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Ed egli disse loro questa parabola. (Lc 15, 1-2)
W: Ho provato un approccio diverso rispetto all’altra volta.
P: Lo capisco. Un po’ è vero. Tornare a casa così provoca vergogna. Ma il Papa dice che non dobbiamo aver paura di provare vergogna, è un sentimento buono, ci rende consapevole del nostro errore.
Il bello è che la storia non finisce per nulla così. Questa te la devi leggere, perché merita proprio:
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Lc 15, 20-24
W: Sbaglio o qui ritroviamo il tema della compassione?
P: Sì, a patto di non intendere la compassione come la intendiamo noi abitualmente. Ti ricordi cosa dicevamo che significasse questa parola?
W: E’ lo struggimento interiore delle viscere provato dalla madre. E qui mi sembra molto interessante che sia il padre a provarlo.
Inquadriamo la situazione

P: Guarda questa immagine di un pittore olandese, Rembrandt. Cosa noti?
W: Noto che il ragazzo poggia il capo proprio al livello delle viscere del padre.
P: Bravo. Potrebbe quasi essere un nuovo parto, una rinascita. Chissà se qualcuno ha commentato in questo senso la posizione del figlio (va bene, poi dovrebbe girarsi, ma tralasciamo i problemi di ostetricia).
Dai un occhiata alle mani del padre, ora. A proposito, l’opera si intitola proprio: “Il ritorno del figliol prodigo” (1668).
W: Le mani sono aperte e poggiano la sinistra sulla spalle destra del figlio, mentre la destra sulla schiena, nella posizione speculare al plesso solare. Mi sembra un gesto di protezione.
P: Certo, un abbraccio accogliente, se lo “tira dentro”.
Ma confronta la fattezza dei due arti, confrontale.
W: La mano sinistra rispetto alla destra è più grande o comunque più larga, mentre l’altra è più sottile.
P: Proprio così. I critici hanno notato che la prima, quella che tu definisci più ampia, con le nervature e le vene in maggior evidenza, è una mano maschile, mentre l’altra, quella più delicata, sembra una mano femminile. Come dicevi tu: quel padre ha dei tratti materni. E, naturalmente, il pittore non le ha dipinte così a caso. Ha colto a pieno quell’elemento che tu indicavi con la compassione.
Torniamo al testo. Gesù dice che il padre – quello che si era beccato il: tu per me sei morto – se ne stava (abitualmente) sulla terrazza in vigile attesa.
Scusa non riesco a non tirarla per le lunghe. A un certo punto, Gesù nei suoi discorsi, deve indicare l’atteggiamento degli uomini nei riguardi del ritorno finale del Signore. Dice così.
siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Lc 12, 16
Ci pensi? Gesù dice che Dio, nei confronti del più irriconoscente dei Suoi figli, che torna a casa giusto perché c’ha fame e vuole trovare la sbobba assicurata, si comporta proprio come ci chiede di fare nei Suoi riguardi: sta lì pronto a vedere se torniamo.
No, scusa. Non è vero.
Cosa devono fare i servi al ritorno del loro padrone?
W: Gli devono aprire subito.
P: E ora ricordaci cosa fa, invece, il padre quando lo vede.
W: “Gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”.
P: Esatto. Straordinariamente di più. E mettiamoci anche il realismo della narrazione. Quello lì veniva da un soggiorno in mezzo ai porci, ci aveva aggiunto il profumo del sudore e la polvere della strada. Sai che olezzo?
W: Mi sembra che al padre interessasse solo vedere suo figlio “sano e salvo”, il resto era tutto sfocato e di contorno.
P: Mi sembra che al padre interessasse solo vedere suo figlio “sano e salvo”, il resto era tutto sfocato e di contorno. Si può aggiungere qualcosa? No!
La compassione di Dio, il perdono di Dio è questa cosa qui. Un papà che non gliene frega niente – lo so che la grammatica cigola, ma rende di più l’idea – del passato, della puzza della polvere che ti sei messo addosso, per la verità neppure del pentimento che provi. Sei qui e sei vivo. E questo è quanto!
Ricordo a memoria la citazione che il Card. Ravasi faceva di una mistica dell’Islam che diceva:
“non è perché ci pentiamo che Dio ci perdona, ma è perché Dio ci perdona che noi ci convertiamo”.
E il perdono qui è descritto con una plasticità efficacissima nell’ordine del padre ai servi:
portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi.
Non c’è scritto, ma secondo me gli ha anche fatto dare una sostanziosa lavata: ma non rientrava nei gesti d’onore. il figlio randagio viene rivestito delle insegne della regalità, torna a essere l’erede.
E si fa festa! Certo, ci sarà anche il tempo della penitenza, per riguadagnare nei fatti la dignità perduta. Ma fatico a immaginarmela come una sorta di pena da espiare: di più come la terapia per rimettere in sesto la vita,
Ma per ora, tutto si ferma qui: alla festa per lo scampato pericolo. Anzi per la risurrezione:
“perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
P: Sai che succede ora?
W: Ora non ricordo.
P: Male. Ora succede che dobbiamo fermarci qui, per rispettare gli ordini dell’editor che ci impone di non superare questa pagina nella lunghezza degli articoli. Ho come la sensazione che, per chi vuole riflettere e mettersi in discussione con la sua idea di Dio, ce ne sia abbastanza. Ma quello che manca non sarà meno interessante.
W: Bene, o male, che sia anche questa settimana abbiamo tanto su cui riflettere e tanto da mettere in saccoccia. Un grazie ancora per la chiacchierata. Ci vediamo alla prossima puntata! Ciao P.E.
P: Buona settimana White Jolly, terremoto permettendo.
Per i più curiosi
Gilbert Cesbron “Cani perduti senza collare” (1954) da cui l’omonimo film di Jean Delannoy (1955)
Graham Greene “Il potere e la gloria” (1940)
Film: Pioggia di un’estate arida (1971) di Arthr Lupin



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