“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente. Questo è il primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso.“
Mt, 22, 37-40
Il seguente articolo cercherà di dare un’analisi del testo a partire dall’insieme complessivo per poi proseguire con le semplici parole. Per concludere si proverà a fare una sintesi delle spiegazioni date alle singole parti cercando di argomentare e di giustificare le posizioni assunte.
Essere esempio
La citazione presa dal Vangelo di Matteo riassume con grande efficacia il messaggio di Cristo, ma ancor di più l’habitus o lo stile di vita di cui Cristo si fa testimone e da esempio. Il figlio di Dio è uno dei pochi e veri maestri che coordinano la parola, il pensiero con l’azione. La disarmonia o la discordanza tra parole e azioni è molto spesso presente nell’essere di molti personaggi che si ergono e autoproclamano come guide o come esempio per l’uomo. Gesù invece viene incoronato con la forza e viene dichiarato I.N.R.I. (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum «Gesù Nazareno Re dei Giudei») da chi lo odiava perché non lo capiva, o per meglio dire, da chi non lo amava. “Maestro” è l’appellativo che gli viene dato dai suoi discepoli. Quello che qui bisogna sottolineare è proprio l’umiltà e la semplicità della condotta del natio di Betlemme, che è pura pratica intrisa di teoria. Un’azione priva di motivazione è scarna e vuota, come una ciotola che ospita solo l’aria, mentre la sola motivazione senza l’azione risulta essere come un seme mai piantato, ma con l’idea del fiore.
Due semplici comandamenti che però sono incarnati nelle azioni e nel pensiero di chi le predica. Non a caso predicare significa: “rendere noto”, come meglio potrebbe essere resa nota qualcosa se non tramite spiegazioni ed esempi?
Amare e non amore
I due comandamenti, che nella loro essenza sono uno solo, rimandano con grande evidenza all’amore, o ancora meglio all’amare. Perché parlare di amore significherebbe astrarre il precetto, renderlo per l’appunto privo di un corpo, di un gente, in quanto ideale e concetto reso oggetto di una contemplazione. Amare non è univoco, né una scelta assoluta, per tre motivi:
- è sempre relativa a qualcosa o a qualcuno, per amare bisogna avere un oggetto amato
- è sempre azione di qualcuno, ci deve essere l’agente che ama affinché ci possa essere un amato
- amare non è sempre una scelta, poiché in quanto passione è un qualcosa che trascina e non che viene trascinata
Amare con tutto sè
Non c’è contemplazione, c’è una esperienza onnicomprensiva che è e viene vissuta. E questo viene espresso chiaramente:
“con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente“.
Senza il pieno coinvolgimento non c’è amore. Qui vengono ripresi tutte e tre le componenti che nella tradizione vanno a comporre l’uomo: mente, anima e corpo. Per completare e riprendere il discorso precedente: senza soggetto non ci può essere amore e per ragionamento inverso si può affermare, un seconda volta, che non ci può essere amore senza soggetto.
Amore dunque non è un qualcosa che si possiede, non è un oggetto. Non lo puoi acquisire né lo puoi perdere. Si parla spesso del cuore, sia letteralmente che metaforicamente per riferirsi all’amore, come un muscolo che deve essere allenato. Vero, però riduttivo ed impreciso. Per parlare esaustivamente della “crescita” o dello “sviluppo” dell’amore, inteso come modo di essere, non è sufficiente ridurre il discorso in termini di “come” o di “cosa”. Il “cosa” o il “come” alleni il cuore va solo ad esprimere una preoccupazione fisico corporea che certo menziona anche la mente in quanto richiama ad un oggetto mindset d’azione, ma che ignora la modalità della dimensione spirituale più essenziale di questo tema: la spontaneità.
Certamente l’allenamento verte all’obbiettivo di rendere un qualcosa come se fosse naturale, ma proprio in questo frangente emerge il problema: parlare dell’amore come di un qualcosa di allenabile implica che sia un qualcosa che si possa avere e perdere, nonché il fatto che sia un qualcosa di originariamente innaturale che poi viene accettato come se fosse naturale.
Per questo motivo amare è possibile solo se viene fatto con tutto sé, poiché essendo un modo di essere o si è amore oppure non lo si è.
Amare è unione
Abbiamo dunque visto che amare è un un modo di vivere, ma soprattutto che amare è l’originario modo di essere. Questo implica il fatto che gli altri modi di vivere sono dei derivanti e più profondamente delle costruzioni dell’originale.
Ma in cosa consiste amare? Qual è il modus vivendi di un amante?
Qui bisogna specificare un punto precedente, ovvero il fatto che ci sia un oggetto amato. È importante per capire bene di ciò che stiamo trattando eliminare la comune accezione che abbiamo di amore, ovvero di un’azione che si chiude nella sfera egoica. L’amore viene spesso inteso come il desiderio, la passione che ci attira verso un qualcosa, però senza fuori uscire dalla sfera del soggetto che rimane il protagonista del polo attivo-agente nel rapporto tra due estremi.
L’amore di cui stiamo trattando qui è invece ciò che è
sentimento d’unione.
L’amore di cui Cristo predica è privo di poli, non ci sono estremità, bensì una comunione nel quale agente e paziente vengono a fondersi a diventare la stessa cosa
e proprio così passiamo al secondo dei due comandamenti:
“Amerai il tuo prossimo come te stesso”
Potremmo definire questo secondo comandamento come un’esemplificazione del primo o come una versione più semplice e comprensibile per chi sta iniziando o ritornando sul sentiero dell’amore.
Nel primo si parla di Dio, mentre nel secondo del prossimo, ma come facilmente vedremo, scopriremo che sono la stessa cosa.
Il primo focus che è doveroso compiere, magari con una certa sorpresa, non è verso il prossimo ma verso il “te stesso”.
Affermare che “amerai il tuo prossimo come te stesso”, implica un necessario amore nei propri confronti, il motivo è abbastanza evidente nonché chiarissimo: il mondo che definiamo come a noi esterno è profondamente influenzato e filtrato dal mondo che noi definiamo come interno, dunque solo se l’uomo si ama può amare il prossimo.
Il mondo “esterno” o fisico è lo specchio del mondo “interiore” o sottile.
Ma qui c’è un’altra motivazione: l’individuo è sempre in un contesto relazionale, sostanzialmente organico, dunque parte di un organismo più grande che si struttura e costituisce un quanto più della somma delle parti. Così come il proprio essere, se non vi è equilibrio non può essere sano, allo stesso modo le relazioni che costruisce in un macro contesto non possono essere sane se anche una sola parte è malata.
Dunque l’uomo può
amare il prossimo come sé stesso, solo se ama sé stesso.
L’amore per il prossimo non è causa, bensì la conseguenza dell’amarsi. In questa breve trattazione si è riassunto una millenaria tradizione di discussioni sul desiderio e la ricerca della felicità:
La felicità non deve essere frutto del desiderio, quindi di una mancanza, ovvero va cercato dentro e non fuori di sé.
Organicismo e rispecchiamento ci portano al primo comandamento:
“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente”
Come avevamo già accennato in precedenza, la predicazione di Gesù sui comanadamenti dell’amore, avrebbe potuto anche concludersi qui. In un certo senso si potrebbe anche osare e dire che tutta la predicazione di Gesù potrebbe essere riassunta in questo breve passaggio.
Ripartendo dalla tesi organicista, si può iniziare a comprendere perché Dio riguarda la totalità e le parti allo stesso momento. Ciò significa che Dio è sia l’insieme della totalità della parti che le parti stesse che compongono la totalità. Non si vuole sfociare in una mera teoria panteista, bensì in una concezione nella quale Dio è da considerarsi come la motivazione, la causa e l’effetto della vita, quindi dell’unione delle cose.
Mettiamo subito in contrasto i due principali protagonisti: Dio e Diavolo o Satana. Diavolo significa: “colui che divide”, “calunniatore”, “accusatore”; mentre Satana: “avversario”, “nemico”, “colui che si oppone”, “accusatore in giudizio”, “contraddittore”.
Si può dunque capire senza difficoltà che Dio essendo l’opposto di colui che divide, che oppone è di conseguenza colui che unisce che mette in comunione.
Ovviamente affinché possa avvenire l’unione è necessario che avvenga nella sua totalità, per questo è imprescindibile il fatto di amare “con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente“.
Ecco il perché viene detto che “amerai il prossimo tuo come te stesso”, perché se dovesse mancare amore anche solo in una parte della totalità c’è divisione, dunque il Diavolo e non Dio. Qui sta la difficoltà dell’amore e la facile via della divisione e della discordia, per questo amare è, o per lo meno sembre essere, più difficile: per la discordia è sufficiente una minima parte per vincere, mentre per l’unione e l’amore il più della totalità.
Ecco il perché il secondo dei due comandamenti dell’amore è una esemplificazione o appendice del primo: se Dio è tutto è sia il prossimo che te stesso, sia il più dell’unione del prossimo con te stesso. Quindi se ami Dio ami te, il prossimo e l’unione del prossimo con te stesso.
Amare non conoscere
Dopo tutto questa discussione sull’amore, arriva una domanda forse inaspettata,
ma perché si parla di amare Dio e per esempio non di conoscerlo?
E’ fondamentale interrogarsi sulle aprole utilizzate, perché il fatto che sia stata scelta quella essatta parola e un’altra migliardi di altre opzioni vorrà dire certamente qualcosa, come per esempio avevamo già visto che la scelta era quella di amare in quanto verbo e non in quanto sostantivo.
Il confronto che qui viene presentato è sostanzialmente lo scontro pluri secolare che c’è stato tra fides e ratio, ovvero tra la fede e la conoscenza. In questo caso però al posto della fede useremo l’amore, o meglio l’amare.
Prima abbiamo affermato che Dio è il più della somma delle parti, ovvero che non può essere definito né esaurito in una mera operazione di somma. Questo dato è eviente in due tradizioni: religiosa e scientifica. Nella tradizione religiosa è risaputo che il mistero divino, di qualsiasi religione si stia trattando, si trova tra e nelle parole, ovvero nell’unione della parole, nella loro concatenazione. La parola testo non a caso deriva dal latino textus (p. pass. di texĕre) e significa: tessere, intrecciare. Questo vuol dire il significato emerge dall’intreccio e nell’intreccio delle parole, quindi nel più della loro mera somma. Ma questo appunto non è l’unico caso. Anche nella tradizione scientifica è risaputo che il mistero dell’universo e della totalità (in termini religiosi si parlerebbe di Dio) non è la formula ma è nella formula, ovvero nella concatenazione dei segni. Dio o universo che sia, che di fatto sono la stessa cosa ma eleborati in due tradizioni che non vogliono sposarsi, emerge nella relazione delle parti e si costituisce in questa relazione.
Un breve esempio per concludere questo parte. Affermare che 1+1=2 non è in nessun modo identico a dire 2 o a dire 1+1. Il motivo è evidente e semplice, perché non sono la stessa cosa. Affermare che “1+1=2”, “2” e “1+1” sono uguali tra loro è come affermare che tre persone alte uguale siano identiche e ciò potrebbe essere vero solo se omettessimo tipo tutto: la loro fisionomia, il colore degli occhi, dei loro capelli, i loro partner, i loro amici, il loro comportamento, il loro modo di vestirsi… Questo vuole esemplificare il fatto che il significato complessivo delle nostre vite, così come dell’amore, emerge dal più della totalità di ciò che le compongono.
Anche se sembra, in verità non ci siamo allontanati dal nostro argomento. Questa breve parte serviva per far capire che Dio, così come ne abbiamo parlato, non può mai e poi mai essere conosciuto nella sua pienezza e totalità. Questo è uno dei motivi per cui si parla di amare Dio e non di conoscere Dio.
L’ultima motivazione che trattiamo riguarda la libertà come condizione che si manifesta attraverso l’atto dell’amare e che invece viene ad ostruirsi con l’atto conoscitivo.
In questo contesto la conosceza che viene contrapposta all’atto dell’amare può essere associata al termine dòxa utilizzato da Platone, avvicinabile anche alla via presa dai dorminenti descritti da Parmenide ed Eraclito. Amare prende così il significato della via pura del conoscere, ovvero della via che porta il soggetto a risanare quela ferita che divideva la realtà ritornando nell’unione originaria, quindi in Dio.
Conoscere implica definire e ciò non è in nessun modo qualcosa di innocuo. Significa porro dei limiti a qualcosa. Significa imporre una rappresentazione ad un qualcosa. Anche la fisica quantistica conferma che non esiste una realtà oggettiva, bensì la realtà soggettiva, quella esperita-vissuta dal soggetto. Quello che viviamo è sempre relativo a come lo rappresentiamo.
Affermare di conoscere Dio significa aver definito Dio, dunque di aver delimitato Dio in una rappresentazione che arbitrariamente abbiamo processato. In poche parole è assurdo. Assurdo perché è come se noi dicessimo che è possibile che il più della totalità delle cose possa essere delimitato. Sarebbe come credere di poter mettere l’universo in una scatola molto grossa.
E qui c’è la più grande e profonda esortazione che Cristo fa ad ognuno di noi (esortazione che si trova in molte tradizioni da quella platonica, al buddhismo alla scienza occidentale):
per essere felici (realizzati) dobbiamo andare oltre noi stessi, a partire da noi stessi.
Se bisogna amare e non conoscere è perché per realizzarsi è necessario superare i propri limiti, ovvero unirsi e non separarsi dal mondo.
Il punto di partenza è sempre il nostro io, tant’è che l’esortazione e di Cristo è sempre rivolta a qualcuno in secondo persona, ma il proprio sé non è altro che il punto di partenza che bisogna essere pronti ad abbandonare per poter ritrovare sé stessi in quanto figli di Dio, ovvero in quanto parte del tutto e in quanto il tutto stesso.



Scrivi una risposta a Farsi e fare domande – Con occhi diversi Cancella risposta