Perché il tiranno è il più infelice.

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L’articolo di oggi è necessariamente più lungo ed impegnativo dei soliti, sia per la sua lunghezza che per le tante informazioni usate nel corso dell’argomentazione. Bisogna premettere che era necessaria una maggior profondità visto il tema di cui si tratta, che è stato forse uno trai più centrali di tutta la riflessione dell’uomo e non solo di quella prettamente filosofica. Detto questo auguro a tutti voi una buona lettura, sperando che lo sia per davvero,

Cordialmente,

Gabriele.

Siamo nel “La Repubblica” di Platone nella quale vediamo Socrate impegnato, tra i tanti argomenti, cercare di dimostrare che il giusto e non il tiranno è l’uomo più felice e che anzi il tiranno è l’uomo infelice per eccellenza. Per arrivare alla conclusione del discorso bisogna attendere quasi la conclusione dell’opera, dove dopo avere esposto la psicologia razionale, la composizione dell’anima, mette in evidenza la condizione di squarcio e dolore interiore che caratterizza l’uomo ingiusto. Ma perché tante parole sprecate? Perché tanti, molti autori e molto inchiostro è stato usato per trattare di questo argomento? Ebbene sempre all’interno della “Repubblica” da Glaucone viene posto il seguente argomento, il mito dell’anello di Gige. Gige è un pastore che trovare un anello che ha un potere straordinario indossandolo e girandolo sul dito ti permette di essere invisibile. Queste permette al nostro pastore di commettere ingiustizia, ma di essere immune nascondendosi da attacchi di altri uomini e soprattutto nascondendo il fatto di essere ingiusto. Questo permette di dimostrare che non importa essere giusti per essere acclamati, famosi, riconosciuti, bensì che è sufficiente apparire, far credere, che si è giusti. Dunque riassumendo la questione è la seguente: che ci guadagna l’uomo giusto ad essere tale, se tanto è sufficiente apparire come giusto, senza faticare, per avere riconoscimenti, mentre l’ingiusto riesce a conseguire tutto ciò che vuole proprio perché non è un uomo giusto?

Insomma l’ingiustizia è una discesa, la giustizia una salita, come descrive lo stesso Platone, perché dunque bisogna essere e non apparire giusti?

Dunque provando a simulare l’impresa platonica, il nostro punto di partenza è affermare che il malvagio o l’ingiusto o ancora meglio il tiranno sia l’uomo più felice, realizzato, e che l’uomo giusto non compia altro che fatica inutile. I punti a favore sono innumerevoli. Il giusto segue le regole, è limitato dalle regole (sociali, penali…), l’ingiusto non le rispetta e prende vantaggi. Il giusto non si approfitta del prossimo e quando un ingiusto se ne approffita di un uomo buono, egli non pone resistenza, nell’ipotesi più estrema aiuta pure il malvagio nel suo intento. Il giusto come sarà Socrate l’esempio massimo, quando viene condannatto ingiustamente (o meno) a morire anche avesse la possibilità di fuggire non scappa dal suo destino, o meglio dalle regole e dalle leggi. L’ingiusto mente e illude e grazie a ciò, grazie all’allontanamento dall verità raggiunge i suoi obiettivi e il successo. L’ingiusto sovrasta il prossimo e si impadronisce di ciò che desidera. L’ingiusto che appare come giusto, che finge di essere giusto può conseguire tutti i suoi sogni, mentre il giusto rimane ancorato ai suoi principi o ai principi imposti.

Insomma il giusto sembra essere semplicente incatenato mentre l’ingiusto pare come un Icaro che non cade.

Eppure così non è. L’ingiustizia può condurre solamente a dolore e sofferenza e un uomo che finge, ma non è giusto non può raggiungere la felicità costitutiva dell’uomo giusto. Semplicemente per il fatto che chi finge di essere un artista non è veramente un artista. Questo argomento della falsità lo ritroveremo più avanti. Platone mostra che l’anima è tripartita, essa ha: una parte razionale rappresentata da un homunculus, una animosa descritta come un leone e una desiderativa che è una bestia a più teste. La realizzazione, la felicità, è quello stato di equilibrio tra le parti dell’anima guidate dalla parte razionale che è la sola che è in grado di condurre e gestire in armonia le parti dell’anima stessa. A differenza di Freud per Platone lo stato di armonia è possibile e non è in nessun modo uno stato di patto come per l’io freudiano che deve mediare e firmare perennemente rinnovati armistizi tra es e super-io. Da segnalare che la felicità (eudaimonia, buon-demone) per gli antichi greci non corrispondeva ad uno stato mentale, psicologico o psicofisico, ma una condizione di realizzazione o di giusto posto nel mondo che ti rendeva completo, stato in cui però era possibile comunque soffrire e provare dolore e non solo gioia. Questo argomento è analogico a quello del governo della città. Di fatto solo quando gli uomini saggi e interiormente guidati dalla ragione, i filosofi, saranno al governo dello stato, la città giusta (realizzata) potrà esistere, mentre negli altri casi regnerà caos e terrore. Da sottolineare che per Platone la parte animosa, il leone, non prende effettivamente mai il controlo dell’anima, bensì tende più a schierarsi con l’homunculus o con la bestia, dunque è importante educare questa parte dell’anima, che nella città sono i guardiani o i guerrieri, così che questo leone sia un fedele compagno e non un nemico da combattere. Quando al governo sale la parte desiderativa, la bestia, non si ha nessun equilibrio e si volge solamente verso la continua ricerca di soddisfazione personale. Questo comporta che come nella città, così nell’anima, una condizione di guerra intestina tra il leone e la bestia contro l’homunculus e chiaramente si può intendere che essendo tutti e tre parte della stessa cosa una lotta del genere non può che comportare dolore e sofferenza.

Dunque per Platone l’uomo ingiusto anche se appare come l’uomo più felice, è il più sofferente a causa di una frattura interiore che egli stesso si è procurato.

Schopenhauer nel quarto libro tratta delle azioni umane e magistralmente tratta della questione dell’uomo buono a confronto con quello malvagio. E’ ridondante una questione che è importante da comprendere, l’uomo malvagio come quello ingiusto solo apparentemente è felice. Il punto è il seguente: ciò che ci appare, non è sempre, o forse mai, la verità. Per capire bene la sua posizione è necessario chiarire due questioni sul pensiero del filosofo tedesco. Per Schopenhauer il mondo ha come fondamento la Volontà che è una pulsione metafisica, quindi non sensibile, che origina, genera e si manifesta nelle rappresentazioni sensibili, quindi il mondo che conosciamo, e forse non solo questo. C’è un ma, ovvero che quello che noi esperiamo è una illusione, ovvero le rappresentazioni che caratterizzano la nostra vita sono prodotte dalla nostra ragione individuale, dunque non c’è una oggettività e nemmeno una intersoggettività nell’esperienza quotidiana. L’albero di cui io faccio esperienza non è in nessuno modo lo “stesso” albero che tu stai osservando. La ragione è come se fosse un inganno o stratagemma della Volontà attraverso cui cerca di mantenersi fertile, ovvero di perpetuare il suo desiderare, il suo volere. La ragione genera egoismi, individui separati tra loro che combattono e cercano di autoconservarsi gli uni contro gli altri, a causa di questa ragione che frammenta la nostra esperienza. Ma la condizione di egoismo è perennemente caratterizzata da dolore e dalla noia. L’individuo soffre perché vuole, perché desidera e continua a desiderare perché nel momento in cui è felice, quindi non è sofferente (perché la felicità non è altro che la condizione di negazione del dolore, che è la condizione positiva originaria della vita) è però annoiato, perché non ha stimoli, e dunque necessita di altri stimoli, che lo condurranno però verso altro dolore e sofferenza. Per Schopenhauer le vie di liberazione da questo dolore possibili sono due: la prima è l’arte, che però si rivela insufficiente, la seconda è la morte, o meglio il lasciarsi morire.

Agire, compiere azioni produce sempre dolore e ingiustizia, ovvero l’invadere e il soffocare la sfera volitiva del prossimo.

Perché se si vuole essere pignoli anche il solo respirare produce dolore e ingiustizia, noi viviamo ma intanto uccidiamo germi e molto altro col nostro inspirare ed espirare. Chi vive insomma, sopravvive grazie alla morte di altro. Argomento molto caro a Lucrezio che nel “De Rerum Natura” scrive, ma non solo, che la morte di qualcosa è ciò che permette la vita o la nascita di altro. Dunque per il filosofo di Danzica l’unica via di liberazione è quella di lasciarsi morire e di liberare il mondo da ingiustizia e quindi dal dolore di cui noi siamo artefici. Importante ricordare che solo la morte e non il suicidio può portare alla liberazione, poiché il suicidio comporta una affermazione della Volontà, mentre il lasciarsi morire, la noluntas, consiste nell’allontanarsi dalla Volontà stessa liberandosi da e di essa.

L’uomo malvagio è colui che è sovraccarico di Volontà, dunque commette ingiustizia, più degli altri, perché desidera di più e dunque perché soffre di più.

La condizione di malvagità e conseguente ad una condizione di estrema sofferenza e non causa di una felicità. L’uomo buono o giusto è colui che invece rispetta la sfera volitiva del prossimo e dunque non soffoca o urta la vita. Ma l’uomo buono non compie ingiustizia perché sa, perché conosce ed è consapevole del fatto che tutti siamo espressione di una unica cosa e che commettere ingiustizia non significa altro che colpire e urtare se stessi. Sia in Platone che in Schopenhauer, con notevoli ed enormi differenze, è la conoscenza che porta ad una buona vita, lontana dalla sofferenza.

Inoltre anche nella “Divina Commedia” di Dante, precisamente nell’”Inferno“, si può vedere molto esplicitamente che le pene che i dannati subiscono sono tutti richiami a dolori terreni e che queste pene sono metafore dei dolori e tormenti che i dannati subiscono non nell’Inferno, bensì nella vita terrestre. Schopenhauer comprese questo fatto e anche egli comprese che i malvagi non subiscono eternamente i tormenti in un’altra dimensione, bensì scontano la loro pena nella loro stessa vita.

Essere malvagi ha i suoi vantaggi ma anche il suo prezzo e questo prezzo è una vita di tormenti, la unica e sola vita di cui disponiamo e nel caso ci fosse un aldilà come quello cristiano sarebbero pure condannati a sofferenza eterna, dopo una vita di tormento.

Ma Schopenhauer afferma anche che non è davvero morale colui che segue ciecamente le regole della morale. Ovvero chi si comporta bene perché cosí potrà accedere al Paradiso è egoista tanto quanto chi commette ingiustizia, perché le azioni che compie non sono altro che volte alla ricerca di un compenso, di un desiderio individuale. Non proprio sulla stessa linea d’onda si inserisce Nietzsche in questo discorso, che più che altro reclama la schiavitù di chi vive sottomettendosi ai dogmi della morale tradizionale, da lui rappresentata in particolare dal cristianesimo. Per vivere liberi bisogna uscire dai dogmi della tradizione e bisogna rompere le catene che da soli ci siamo forgiati chinando il capo e annuendo a quello che ci viene imposto come la verità. Ci sono tre fasi: quella del cammello, ovvero dell’uomo che faticosamente e sofferente porta sulle spalle il peso della tradizione, quella del leone ovvero della ribellione e quella del bambino, ovvero la ricostruiozione, lui usa il termine “trasfigurazione”, dei valori. Per Nietzsche il Freigeist, lo spirito libero, è colui che riesce a vivere fuori dai dogmi imposti e che dopo essere arrivato alla conoscenza dell’assurdità della vita riesce a costruire in mezzo al mare le fondamenta e le motivazioni per dire di “sì” alla vita. Senza rimpianti e trasformando il “così fu” in “così volli che fossi”, l’affermazione della propria volontà, la capacità di affermare e vivere così come io voglio vivere e non secondo le leggi o le regole imposte dal prossimo, questo è lo spirito libero. Dioniso Zagreo, il dio che dopo essere risorto torna gioiosamente a vivere è l’emblema dell’esistenza vero e non il Cristo che dopo la resurrezione abbandona il mondo vertendo verso un mondo metafisico, il Paradiso.

Questo excursus su Nietzsche mi è utile per ricollegarmi al discorso della falsità che avevo promesso sarebbe tornato in campo, anche se non l’ho esposto solo per motivi d’utilità. Assieme a Nietzsche anche Martin Heidegger può darci un buon supporto. Heidegger dice che ci son due modi di vivere, uno autentico e uno inautentico. La vita autentica è vissuta da quegli individui che non si conformano a prescindere col gregge, gli uomini autentici, qui parafraso, sono quelli responsabili, ovvero che rispondono per se stessi, pensando autonomamente. La vita inautentica, non stranamente nè sorprendentemente, è vissuta dalla netta maggioranza degli uomini e costoro sono quelli che affermano “si dice così…”, ovvero quelli che si accomodano al gregge o come potrebbe dire Nietzsche che si inginocchiano ai dogmi imposti. Da qui si può facilmente intendere che soldi, fama, potere non possono portare nulla se non sofferenza o una fasulla o illusoria felicità costruita su valori altrettanto illusori come quelli della società. Non pochi sono gli esempi di personaggi famosi o ricchi che si sono suicidati o che sono caduti pericolosamente in depressione per tanti differenti motivi, tra cui l’assenza di motivazioni per vivere, a testimonianza del fatto che fama e soldi non portano la felicità.

“Spero che tutti possano diventare ricchi e famosi ed avere tutto quello che hanno sempre sognato, così scopriranno che quella non è la risposta che stavano cercando.” Jim Carrey

Piccola nota, non sto dicendo che i soldi vadano bruciati come fa il Joker, interpretato da Ledger (suicida nel 2008) di Nolan in “Il cavaliere oscuro”, i soldi son necessari essendo in una società che fonda come materiale necessario per ogni transazione il denaro e che dunque è necessario avere i soldi che permettano per lo meno di soddisfare i bisogni primari. Quello che sto affermando è che è ridicolo porre come obiettivo della propria vita mete illusorie come la ricchezza o la fama. Quando si può dire di essere ricchi o famosi? Qual è la soglia limite o massima? Ma soprattutto una volta che si è ricchi che succede? Penso che quello che tutto desiderano, ma che esprimono abominevolmente in modo errato sia il fatto di poter avere la possibilità di fare e avere tutto ciò che si desidera, non di essere ricchi. Avere i soldi è un conto, potere fare ciò che si vuole grazie ai soldi o meno è tutt’altra faccenda. Ma ora dirigiamoci verso i punti cardini del discorso. Vivere per i soldi o per altri valori che son puramente sociali significa vivere in modo inautentico e soprattutto in un mondo illusorio, dunque non vero e per lo meno falso. Significa gettare via la vita, l’unica vita che abbiamo ricevuto in dono. Estendendo il discorso, vivere sotto menzogna, inganni, bugie ed illusioni significa altrettanto gettare via la propria vita. Quindi anche se l’uomo ingiusto che appare giusto può ricevere doni, riconoscimenti etc… la sua vita rimane null’altro che menzogna e il suo valore non può che essere come quello della lira nel mercato moderno. L’uomo giusto invece avrà una ricompensa, che riceve in modo indisinteressato, che consiste nel vivere una vita vera. Sembrerà poco, ma ora vediamo quali sono le giustificazioni a favore dell’uomo giusto.

Il Buddah afferma che la vita è sofferenza, questa sofferenza ha origine nel tempo, così come afferma Schopenhauer, poiché ciò che ora possiedi prima o poi lo perderai. Tutto ciò che si possiede è destino che venga perduto. La morte arriva per tutti, gli edifici crollano, i dipinti si scoloriscono, il tramonto terminerà… Dunque anche ogni nostra singola azione, nonché la nostra esistenza verrà persa nel nulla, perché non c’è nessuna mente divina o universale nella quale vengono annotati o salvati gli avvenimenti. Non c’è un notaio o un almanacco dell’esistenza. “All thing must pass” canta George Harrison, “Anything goes” i Guns N’ Roses, “But all the things that you’ve seen / Will slowly fade away” gli Oasis. Il concetto si è capito. Questo significa una sola cosa, che i momenti di coscienza sono l’unica cosa che ci rimane e l’unico spiraglio di esistenza che possiamo vivere. Il passato esiste, nella nostra mente, il futuro lo ipotizziamo sempre “lì dentro”, il presente crediamo sia “questo momento”. Illudere, dire menzogne, fingere significa vivere non autenticamente, è come con un velo o una maschera che ci copre e che nasconde ciò che veramente sta sotto.

L’ingiusto, il tiranno, dunque spende, senza possibilità di risarcimento, la propria vita in illusioni e dunque quello spiraglio, quell’unica possibilità di vivere viene trasformata in lire in un mondo di euro.

Mentire è più dannoso per chi mente che per chi viene imbrogliato, così come commetere ingiustizia nuoce più a chi la compie. Il linguaggio, le parole sono il nostro modo per raccontarci e descrivere la realtà, dunque il nostro materiale per costruire la nostra concezione della vita e della nostra esperienza, raccontando menzogne o falsità cadiamo per essere cittadini di una Atlantide. Certo potrà essere bello, ma sicuramente non sarà veritiero. Mentire significa imbrogliare se stessi e significa costruire ricordi e lasciare un’immagine falsa di sé alla realtà. Ovvero chi dissimula, chi finge di essere quello che non è, chi mente, chi cerca di essere quello che la società, il partner, il datore di lavoro vuole, vivrà l’unica cosa reale e vera in modo inautentico. Quello che rimarrà del tiranno, del malvagio e del bugiardo non sarà altro che un bel poster, mentre ciò che lui era avrà la consistenza di un fantasma. Ma un bugiardo non è stato se stesso nella sua vita? Vero, ma che dire del fatto che nessuno lo ha mai conosciuto davvero se non a frammenti e il problema come già sottolineato non è tanto per il resto della realtà, ma quanto per il bugiardo stesso che non sarà più in grado di discernere il vero dal falso non della realtà, ma di se stesso.

Ma so per certo che questi argomenti non saranno ancora sufficienti. Platone esemplifica chiaramente la differenza tra giustizia ed ingiustizia nel “La Repubblica”: la prima è una salita faticosa, l’altra una discesa comoda, quindi ci vuole poco per essere persuasi a percorrere la via dell’ingiustizia e molto, a volte troppo, per quella della giustizia. E poi è inutile ai filosofi e agli scienziati si ascolta poco, mentre ai demagoghi, sofisti e ciarlatani si ergono altari, questo non lo dice Platone. La verità è scomoda, certo, ma scomoda per chi? Per un Falcone o Borsellino la verità della corruzione mafiosa non è scomoda, è scomoda per chi omise i reati, per i politici immanicati. La verità che narrano questi filosofi non sarà scomoda per chi vive o cerca di vivere in armonia col mondo, amandolo come se fosse egli stesso, seguendo l’esempio del Cristo, che predicava già quello che millenni di filosofia hanno cercato di dimostrare, questa verità sarà scomoda per lo strozzino, per l’ingannatore, per il prepotente, per l’avido imprenditore capitalista. Dunque per alimentare con dimostrazioni scientifiche come il bene alla fine genera bene e il male conduce ad altro male, portiamo in causa gli esperimenti di Masaru Emoto. Questo scienziato ha dedicato la sua vita e le sua carriera allo studio delle vibrazioni e di come queste influenzino la realtà. L’acqua ha una memoria storica e registra le vibrazioni con le quali entra in relazione. Cinque piastrine con una goccia d’acqua sopra, verso ognuna di queste viene detta una bella o brutta parola o pensiero e poi vengono congelate. Le gocce che hanno incontrato belle parole o pensieri, belle vibrazioni, hanno una forma armonica e proporzionata, le altre che son state insultate o male-dette sono sproporzionate, quasi “mostruose”. Un altro esperimento è quello del riso. Si dividono due contenitori di riso e su uno per un mese vengono dette buone parole mentre sull’altra cattive. Il primo rimarrà ancora conservato il secondo si mostrerà in decomposizione. Ma ancora più incredibile è che lo stesso risultato lo si potrà ottenere ponendo un’immagine di un santo, o personaggi come Mandela su uno e sull’altro immagini o foto di personaggi come Hitler. Perché le immagini, come i simboli sono carichi di informazioni, di vibrazioni che influenzano ciò che sta attorno.

Parlare bene, diri belle parole, ringraziare, essere sinceri, essere grati, pensare bene sono ciò che può portare ad una vita sana e felice, mentre ingannare, mentire, insultare, sfruttare e ferire il prossimo è solo un ponte di collegamento col dolore. Imparare a parlare bene è una questione di salute, non scolastica o grammaticale.

Inoltre è stato anche dimostrato che oltre ad essere gentili e a parlare bene, sorridere e ridere ringiovanisce e rende l’organismo più sano e forte, perché chi vuole vivere col mondo, vive bene.

Perché il benessere si costruisce e si può vivere in ben-essere solo se si “è bene” e perché la parvenza non è mai equivalente all’essere.

P.s. si consiglia l’ascolta di “Isn’t it a pity” di George Harrison.

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2 risposte a “Perché il tiranno è il più infelice.”

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    […] incessante della Volontà. La questione è più complicata, ma ho già esposto qualcosa in precedenza. L’individuo si ritrova in balia di una forza che lo spinge a volere la vita, o meglio a […]

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  2. Avatar La città ideale e la censura: l’impotenza dell’ideale. – Con occhi diversi

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