Perché bisogna imparare ad essere soli?

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Solitudine: “Che sta da per sé, che non è accompagnato da altri, unico.”

Prima di iniziare per davvero l’argomentazione mi sembra doveroso cercare di delineare i contorni della trattazione. Ovvero di cercare di definire in che senso o modalità intendo la parola o condizione della solitudine.

In nessun modo intendo la solitudine, almeno in questo testo, come quella condizione di asocialità o isolamento dal mondo e dalle relazioni umane e non. Non parlo nemmeno della solitudine come un volontario distacco dal prossimo, né come un sentirsi tagliati fuori dal mondo. Non parlo della solitudine come l’essere abbandonati o il sentirsi abbandonati.

Bensì nel testo solitudine indica una condizione di integrità e semplicità di un individuo.

Integrità perché nulla manca, ovvero una completezza dell’individuo.

Semplice perché non composto, quindi un individuo che è unitario in sé. Con questo non voglio dire che non abbiamo più personalità, bensì che non siamo frammentati né fisicamente né psichicamente.

Dunque solitudine qui viene intesa come una condizione nella quale un individuo è completo di per sé e che non necessita altro al di fuori di sé per sentirsi realizzato (felice).

Ecco qua la differenza fondamentale tra la solitudine per come la voglio esporre rispetto a come, solitamente, sembra essere intesa.

Qui essere soli significa non avere bisogno di altro per sentirsi realizzati. Mentre comunemente si parla di solitudine per intendere una condizione di una mancanza.

Vorrei concentrarmi su un solo aspetto in questo testo, che è quello che riguarda la relazione tra solitudine e felicità, spiegando le differenze tra le due concezioni (quella comune e la mia, che riprende correnti di pensiero taoiste e greche).

I due punti che spesso vanno a dare man forte alla concezione comune della solitudine, sono il fatto di aver bisogno di un altro per completarsi e del fatto che la felicità si trovi nelle (piccole e non) cose. Il primo punto viene spesso spiegato con il mito degli uomini palla, che ricordo essere usato da Platone per criticare l’amore strettamente carnale. Ma alla fine lo si può tranquilamente ridurre ad uno dei tanti modi del secondo punto, ovvero del ritenere che la felicità la possiamo trovare nelle cose, quindi da ciò che è fuori di noi. Dunque nel ritenersi, necessariamente sempre, incompleti. Ovviamente nel caso della ricerca della “dolce metà”, la felicità la si ritrova in una persona, però qui parlerò di ciò che ci è esterno in modo indiscriminato.

Dunque per essere felici, nell’accezione comune, bisogna avere-possedere qualcosa, che ovviamente non fa parte di noi. Questo significa che siamo schiavi di quell’oggetto, poi vedremo perchè. Diveniamo felici nel solo momento in cui siamo padroni, ovvero quando crediamo di avere qualcosa sotto il nostro potere. Si vede che siamo felici, quando possediamo qualcosa. Però quel qualcosa, che pensiamo di possedere, ci ha in suo potere. E’ un relazione paradossale, perchè quando mettiamo il potere su qualcosa, rivestiamo quel qualcosa della facoltà di controllarci. Esempio banale, compriamo quella giacca che ci piaceva tanto, soprattutto perchè costava tanto, e dunque la mettiamo sotto il nostro controllo, quindi siamo felici. Eppure quella cosa che è “nostra”, appena si rovina o ci viene rubata, soffriamo. Il meccanismo è questo: quando possediamo qualcosa lo integriamo nella nostra identità, rendendola così composta. Ma il problema qui è che l’identità è composta di due identità che sono indipendenti fra loro. La giacca è e ci rimarrà esterna in ogni caso. Legalmente ci appartiene, ma esistenzialmente non lo potrà mai essere. Lo stesso discorso vale per le relazioni sentimentali e d’amore. Un altro esempio può essere quello della vista di un tramonto. Nel vederlo ci sentiamo felici, come se quel momento e quella sensazione ci appartenessero, tantochè quando il tramonto svanisce perdiamo quella sensazione e con essa quella felicità passeggera. Semplificando e banalizzado, non saremo felici fino al prossimo tramonto. In questo senso siamo schiavi di ciò che possediamo. Dunque la solitudine è l’assenza di un qualcosa di esterno che ci è necessario per essere, o renderci, felici.

Diversa e non opposta è l’altra concezione. In questo caso la felicità e la solitudine sono quasi considerate come una condizione unica. La solitudine è felicità, nel senso che al di fuori di noi non abbiamo bisogno di nulla per sentirci completi o realizzati. In questa situazione dunque la presenza o assenza di un qualcosa non può controllare la nostra esistenza. Questo significa che non siamo condizionabili dal mondo esterno. Ovviamente non vuol dire che dobbiamo essere apatici, anzi indica una capacità di essere liberi di provare sentimenti ed emozioni chiare e sincere, che non sono dettate dal bisogno. Se non si impara ad essere soli, ma si continua ad avere quel bisogno del prossimo per dar senso al nostro esistere, non potremo mai raggiungere un vero stato di felicità o realizzazione, perché saremo sempre lacerati. Questo per il semplice fatto che noi non siamo quello che è esterno a noi. È inevitabile il dolore in una qualsiasi relazione nella quale poniamo il senso della nostra vita o felicità nell’altro. Ma per il semplice fatto che l’altro non è noi e dunque necessariamente, in qualche modo, manifesterà la sua indipendenza, mostrando l’inesistenza di quella identità che credevamo fosse unica e reale. Esempio: in una relazione, spesso si crea una identità di coppia, ma non è questo il problema. Il problema è quando si crede che l’identità di coppia si la nostra individuale identità, (correttamente Bono in “One” degli U2 canta: “we are one but not the same”). Credendo in ciò, necessariamente soffriremo perché l’altro farà, prima o poi, qualcosa che noi non avremmo fatto. Così evidenziando l’illusione o falsità di quella identità. Ogni relazione è sana, felice e realizzata, solo e solamente quando è composta da individui realizzati. Nel senso che se due individui non hanno bisogno del prossimo per completarsi la relazione sarà sincera. In questa chiave di lettura tutte le altre relazioni sono “nocive” o caratterizzate dalla dipendenza (schiavitù psico-mentale, ma anche fisica e fisiologica pulsionale). Significa semplicemente che chi non sta bene con se stesso non potrà stare bene con gli altri, o meglio, soprattutto difficilmente potrà fare stare meglio gli altri. Con questo non voglio dire che chi è in difficoltà è un tiranno nei confronti degli, bensì lo è chiunque pensi che in qualche modo il prossimo faccia parte della sua identità e che sia sottomesso a suo volere.

Imparare ad essere soli significa imparare a stare bene con se stessi. Riuscendo a costruire un centro unitario di sé, che sia completo e che non sia fatto da pezzi “di altri”, ci dà la possibilità di vivere al meglio le relazioni, di vivere senza vincoli.

Vorrei ricordare che questi scritti sono frutto di studi, letture e soprattutto senso critico, e che questi scritti sono la mia soggettiva riflessione che non hanno nessuna pretesa di essere riconosciute come verità o certezza. Anzi l’obiettivo di questo blog è quello di stimolare il dialogo e la riflessione, che spesso e soprattutto nascono da una sana e rispettosa critica.

(DIRITTI RISERVATI, NON RIPRODUCIBILE)

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Una replica a “Perché bisogna imparare ad essere soli?”

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