Principali riferimenti: Mt 18
P: Ciao White Jolly, che mi racconti della tua settimana?
W: Ciao P.E. una settimana piena, come sempre, ho visto anche un po’ di stelle nelle notti fiorentine. Tu che mi racconti?
P: Niente stelle, ma certamente più piena del solito. Ho iniziato a incontrare nuovi amici, essendo stato mandato in una Parrocchia dove farò – per un po’ – il simil parroco. Gruppi, collaboratori, festa di compleanno del Parroco precedente. Insomma piena!
Ma iniziamo. Ti sono piaciuti i romanzi di Marshall?
W: I testi da Marshall non ho avuto modo di incontrarli, né letteralmente né figurativamente. Ci servono per l’avventura di oggi?
P: Per l’avventura di oggi non sono indispensabili, ma per la vita vale la pena leggerli: meno stelle, più libri!
Ma hai tempo. Hai capito invece qual è il nostro problema con la logica di Dio? Come lo riassumeresti per i nostri amici che ci seguono?
W: Un riassunto potrebbe essere questo: la logica del Regno di Dio non è quella del dare e avere, bensì quella di una profonda fiducia. Dio ci chiede di affidarci a lui e lui semplicemente, si può dire?, ci da quello di cui abbiamo bisogno. Aggiungi pure tu qualche considerazione.
P: Poco da aggiungere, se non che Lui ci ha già dato. In fondo, tutti quelli che abbiamo incontrato in queste parabole – e coloro per i quali Gesù le racconta, e che ci rappresentano più di quanto ci piacerebbe – credono di essere in credito nei suoi riguardi e sono infastiditi dal suo essere così generoso con gli altri. Oppure, come nel caso del servo meschino – bello; non so se sei un frequentatore dei film tratti dalle opere di Camilleri, ma lì l’aggettivo viene utilizzato nell’accezione del dialetto Siciliano, che rispetto all’italiano in cui il termine è dispregiativo, suona come “sfortunato” – della parabola dei talenti (o delle monete d’oro), si sentono investiti da un compito che li supera, per cui il problema diviene come sfangarla alla meno peggio. Si fosse fidato, come dici tu, di Lui e, ancora di più, della fiducia che Lui riponeva nel servo cui aveva lasciato “il proprio” talento – un capitale – avrebbe fatto grandi cose.
Nel racconto – la parabola – che prendiamo in considerazione oggi, questo pensiero emerge in forma chiarissima.
W: Paolo Crepet critica l’idiozia, il focalizzarsi su un punto specifico, dei genitori che dicono che “non fanno mancare nulla ai loro figli”, perché secondo lo studioso questo atteggiamento fa appiattire i figli e non li aiuta nel processo di crescita. In poche parole se dai tutto a tuo figlio non lo stimoli e non lo aiuti a sviluppare, a diventare consapevole e a scoprire le sue grandi capacità. Dio sembra essere un genitore che dà tutto ai figli, però non glielo dice, bensì li mette nelle condizioni di sfida che li aiuti a far emergere le loro potenzialità.
P: Tu dici? Non so se sono così d’accordo. Anche se credo di capire a cosa alludi, nel riferimento al fratello maggiore del figliol prodigo o all’operaio della prima ora. A me, pare piuttosto che tutta la fatica della rivelazione di Gesù sia quella di svegliarci a comprendere quanto amore ci abbia già raggiunto e di quanto siamo stati superati da questa azione di Dio, che ci riversa addosso la sua benevolenza, mentre noi continuiamo a pensarlo seduto là – sul suo trono – a far di conto per valutare se abbiamo passato o meno gli esami.
Entriamo nel brano e vediamo se sarai d’accordo con me.
Da quale questione nasce la narrazione di oggi?
Un debito imperdonabile

W: Il nostro protagonista è un servo che si trova debitore nei confronti del suo padrone, il quale ora gli chiede di restituirgli ciò che deve. Ovviamente questo poveretto non ha la possibilità di sanare immediatamente il debito e chiede pietà, o per lo meno di posticipare la scadenza.
P: Sì, di posticiparla di un paio di millenni, vista l’entità del debito. Il “poveretto”, come lo chiami tu, aveva accumulato un debito di 10.000 talenti. Non so a quante Finanziarie ammonti (le previsioni di spesa dello stato italiano), ma direi così a spanne, due o tre. Si tratta, evidentemente, di un governatore (un satrapo) che aveva ingigantito a dismisura il debito con il suo Signore (il sovrano che gli aveva attribuito il potere su una qualche regione) e che, per anni, non aveva versato il dovuto.
La richiesta di dilazione si manifesta palesemente irrealistica: ormai era un debito insanabile. Le conseguenze sarebbero state disastrose: confisca di tutti i suoi possedimenti, vendita del debitore e di tutta la sua famiglia come schiavi, per rimborsare almeno in parte la perdita che aveva provocato alle casse del sovrano.
Ma ti chiedevo: come mai Gesù racconta questa storia? Rammenterai che, la narrazione delle vicende del figliol prodigo e famiglia, muovevano dalla considerazione scandalizzata di quanti vedevano Gesù familiarizzare oltre misura con i peccatori. E oggi?
W: Ricordo abbastanza della condizione di partenza di queste vicende.Oggi la parabola viene introdotta da uno scambio di parole tra Pietro e Gesù:
“Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.”
Mt 18, 21-22
Si parla, a quanto ho compreso, di perdono e leggendo il testo della vicenda si trova due volte l’atto del perdono, anche se vedremo che il secondo in realtà verrà a mancare…
P: Perfetto. Se volessimo tentare di dire di più, potremmo aggiungere, in prima battuta, che rispetto al contesto della parabola del figliol prodigo (o del Padre misericordioso), cambia lo scenario. Là erano quelli fuori – gli Scribi e i Farisei giudei – a “stracciarsi le vesti” di fronte al comportamento del Signore. Ora invece il problema è dentro la comunità dei discepoli: c’è da pensare che l’evangelista Matteo ricorda il dialogo tra il primo degli apostoli e il suo Maestro per dire ai cristiani che leggono il suo Vangelo quale deve essere la logica che regola i rapporti al suo interno.
Ed è una logica che sembra di un tale radicalismo nel perdono da risultare non solo impraticabile, ma pure incomprensibile.
Adesso, va bene che dobbiamo sempre dire che Gesù c’ha ragione, ma oggettivamente, qui gli è proprio scappata un po’ la mano.
Pietro è bravissimo: cita un salmo che dice che il giusto pecca sette volte al giorno. E domanda: ma non dovrò mica fare anche io come Dio che perdona tutte le volte? Tieni conto che 7 – la settimana, i sacramenti, i 7 doni dello Spirito santo; anche i 7 nani, ma non c’entra – è il numero della pienezza.
W: Da quello che mi hai detto si comprende effettivamente che Gesù chiede un po’ troppo in questa situazione. In sostanza dice che dovremmo perdonare come Dio, però 70 volte tanto! Ma insomma lo perdoniamo se ogni tanto dà anche lui i numeri.
Sempre di numeri e di conti ne ha ancora da fare il nostro grande debitore, come se la sbriga?
P: Beh, direi che non se la sbriga e non può sbrigarsela. Seguimi.
Parabola in sintesi (ma voi andate a leggere il testo!): il sovrano impone una sorta di redde rationem (facciamo i conti!, per chi non ne sa di latino) a tutti i suoi vassalli.
Arriva il tizio in questione e la disperata situazione che abbiamo descritto. Condanna totale. Il poveraccio supplica, proponendo un piano di rientro che non sta né in cielo (!) né in terra. Il sovrano che, a norma di giustizia, non avrebbe dovuto neppure prestagli attenzione, decide di risolvere la questione stracciando le cambiali andate in protesto e rimandando il fortunato debitore a casa libero e felice.
Ma, ahimé, uscendo da lì, questo trova un collega che era a sua volta in debito con lui. 300 denari sono altrettanti giorni lavorativi: diciamo più o meno sei mesi (se conti i giorni festivi). Non una bazzecola, ma di sicuro non vale nemmeno fare la proporzione rispetto alla fortuna che gli era appena toccata.
Niente da fare, questo non vuole saperne: o mi paghi subito o ti sistemo per le feste.
Figurati se non c’è, a corte, qualcuno che corre dal re a raccontare la cosa.
Perdona e sarai perdonato

L’ira di Dio (letteralmente!): il sovrano lo fa richiamare.
“Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”
Mt 18, 33
Non lo lascia neppure rispondere, e fa eseguire la pena originaria.
Per capire: quando noi siamo così ostili al perdono, “per ragioni di giustizia”, è come se ci mettessimo giù a metà brano. Tu mi incontri e mi dici: me li saldi o no questi debiti? E che vuoi che ti risponda? Tu hai ragione e io ho torto: se ti devo trecento denari, ti devo trecento denari. Mica posso dirti: ma, scusa, guarda quanto ti è appena stato donato (che, per altro posso anche non saperlo).
E Pietro dice a Gesù: ma fino a quando devo essere buono con quell’infame che non mi restituisce quello che mi deve. O peggio: che continua a comportarsi così male nei miei riguardi? Che mi ha ferito ieri, ieri l’altro e il giorno prima ancora.
Vista così, la richiesta di Gesù è assurda: se te lo chiede (che non è un dettaglio, il fatto che te lo chieda, dico), tu continua a perdonarlo. Se non te lo chiede, pure. Ma che te lo chieda non è un dettaglio: perché uno non può ricevere il perdono se non lo vuole. In occasione della strage di Capaci in un servizio in tv hanno intervistato la moglie di un uomo della scorta – ora non ricordo più se di Falcone o di Borsellino – morto in quegli attentati. Rosaria Levatino si chiama, se ricordo bene. Tu non c’eri, non eri ancora nato. Ma quelli della mia età ricordano bene quella giovane donna che tra le lacrime legge una preghiera dei fedeli per gli omicidi del marito e, dopo averli invitati al pentimento, sempre tra le lacrime, urla:
“ma tanto loro non si pentono, non si pentono, …”
Un dramma che ricordo come oggi, dopo trent’anni.
Pentirsi non è indifferente. E tuttavia Gesù dice: ma tu non puoi evitare di perdonarli! Perché devo essere buono come Dio? Intende questo il padrone quando dice al servo: non dovevi forse anche tu …?
Non proprio. Propriamente è: perché tu, almeno un po’, devi assomigliare al modo di fare che Dio ha avuto nei tuoi riguardi. Sostanzialmente, dovresti essere, dovremmo essere – io dovrei essere! – grati. E trasformare quella gratitudine in graziosa misericordia. Ricordando che poi, il divario (tra quanto abbiamo ricevuto e quanto ci è chiesto di donare) resta enorme.
W: Mi viene da sottolineare ancora una volta una parola che ci è stata molto cara nei discorsi precedenti: compassione. La grande differenza che c’è tra il re e il debitore è che il primo ha avuto compassione del prossimo e il secondo invece no. Quella capacità, perché a quanto sembra bisogna comunque allenarla, di mettersi in contatto intimo con l’altro ti permette di fare gesti “da Dio”, di perdonare come Dio. Ora, ovviamente, sono tante belle parole, poi i fatti certamente sono altri. Trovarsi nel mezzo della strage di Capaci non è sicuramente di aiuto per essere come Dio. Ma d’altra parte se fosse semplice tutti saremmo come Lui. Ci vuole uno sforzo sovrumano. Ma forse, dico forse, se tutti facessero un solo piccolo sforzo potrebbe bastare. Ma questa via più semplice pare essere, nonostante tutto, la più ostica.
Perdono sino alla morte

P: Ti chiedo – e con te a chi legge -ancora un po’ di pazienza. Detta così, mi pare che quella di Gesù si risolva in una sorta di lezione sul comportamento: vi dico cosa dovete fare. Ma questa non giustifica la parabola. Il centro del racconto è che il tizio chiamato a essere come Dio – per usare il tuo linguaggio – è uno che ha avuto la fortuna di doverci fare i conti, con questo Dio che è come Dio e non come lui. Perché se Dio fosse come noi, lui – e anche noi – non l’avrebbe sfangata.
Matteo scrive il Vangelo dopo che Gesù è morto e risorto e capisce che quella morte e risurrezione è il modo con cui Dio, ci cancella il debito:
“Con lui [Gesù], Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.”
Lettera ai Colossesi 2, 13-14
Chi ha scoperto che – condannato a morte, per una vita che non riesce ad essere all’altezza delle aspettative di Dio su di noi – siamo stati rimessi in gioco come figli, perché un altro ha pagato al nostro posto – non tanto a Dio, ma alla sua giustizia che ci impediva di essere riconosciuti adeguati a stare di fronte a Lui – e che questo altro che ha pagato per noi è lo stesso Dio che avrebbe dovuto condannarci, e l’ha fatto nella carne del suo Figlio, non può che considerare ogni debito come irrisorio, rispetto a quanto ha ricevuto. Fuori da questa logica – come il servo dei talenti che viene condannato “sulla base delle tue parole” – non si può neppure essere capaci di accogliere il dono che ci è stato fatto: e il debitore malvagio viene rigettato nella sua condizione.
W: Questa morte mi suona simile a quella di cui abbiamo già parlato, un morire che permette e serve per (ri)nascere.
P: Direi che questa morte – quella di Gesù, il Figlio di Dio che si è fatto uomo – è l’unica che è capace di suscitare una rinascita e nella quale è possibile una rinascita. E’ l’originalità del cristianesimo. Non dice come vivere, semplicemente. Un’infinità di dottrine raccontano come dovremmo comportarci e offrono ottimi spunti sul tema della vita buona. L’annuncio cristiano è che Dio ci ha messo in grado di partecipare alla sua stessa vita e l’ha fatto grazie alla vita di Gesù che ci ha donato questa sua amicizia con Lui, accettando, pur di non venir meno a questo dono, di arrivare sino alla morte. Proprio perché nessuno e niente – nemmeno l’odio di quegli uomini a cui è stato mandato – è riuscito a fargli cambiare idea e a compiere la sua corsa verso di noi, ogni situazione di vita – anche quelle che ai nostri occhi si presentano come più disperate – portano dentro la condizione per essere felici o, come diceva Gesù, beate. Ma, se sei d’accordo, di questo parliamo la prossima settimana.
W: Ti ringrazio per la serata e per questo incontro. Ci vediamo settimana prossima, a presto P.E.!
P: Buona settimana e buona vita, White Jolly.
PER I PIU’ CURIOSI
Casati Angelo, Il sorriso di Dio, 2014



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