L’essere è morto

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Lo vidi lì, per chissà quanti giorni, saranno stati venti, tanti, forse pochi o magari era solo quella mattina. Comunque lo vidi lì, fermo. Ecco, fermo. Cercava invano, o con illusorio successo, di non cambiare. Guardarlo ti dava una sensazione di atemporalità, nulla si muoveva in quell’infinitesimo spazio di questo immenso universo in espansione.

Ma era una sensazione difficile da spiegare, forse impossibile da vivere.

Ma non dico che non sia possibile viverla ancora, dico proprio che non è della nostra vita quella sensazione, non è qualcosa che è ora, di questa realtà.

Lì in quell’infinitesimo spazio senza tempo, dove nulla si muoveva regnava la morte o forse la vita eterna. Regnava l’essere. Sì ecco, lì c’era l’essere. Non nel senso che lì nel passato c’era e ora non c’è più, nel senso che io ricordo che lì l’ho sentito.

Dove tutto è, non c’è tempo. Provate a seguirmi: come può una cosa essere in un momento e poi essere la stessa cosa anche se ora è diversa? Una cosa diversa da ciò che era, è la stessa cosa che era prima di cambiare? Come è possibile? Una sedia verde se viene verniciata di rosso, è la stessa sedia verde di prima? E se sì, perché? E se no, perché? Insomma, sembra che ci sia solo un continuo morire invece che un continuo vivere.

Non so per quanto tempo rimasi lì, con lui, non so neanche se rimasi lì per del tempo con lui. Si dice che il tempo sia il dono più prezioso eppure non sappiamo ancora cosa sia. Si dice anche che condividere il tempo sia il gesto d’amore più grande, ma anche qui ricadiamo in un errore classico: che la quantità sia sempre meglio della qualità. Beh insomma, importa quanto tempo e non come condividi il tempo. Eppure non è così. Che fosse neanche un secondo o una giornata intera, quel tempo con lui, per me ne vale tutta la mia vita.

Pensandoci bene non saprei neanche cosa ricordo, perché lì in quel non-momento non c’era qualcosa, ma c’era tutto e nulla.

Non c’era un prima, né un dopo, né un adesso.

C’era solo quella sensazione d’essere, niente attimi né frammenti. Non potevo neanche essere triste o felice, ma neanche in quiete, perché non c’era moto.

Ma poi, la suoneria del mio telefono mi strappò via dall’eternità e venni nuovamente risucchiato nel frastuono quotidiano. Faceva male, pure le pulsazioni del cuore mi sembravano come dei pugni che dall’interno cercavano di farsi spazio. Spazio per non so cosa. Tutto era così… volatile, fugace, morto. Era come rincorrere l’aria e cercare di catturarla con un retino.

Ero perso. L’unica guida che ancora avevo era la gravità che mi obbligava a stare coi piedi per terra. Ma solo il corpo rimaneva saldo al marciapiede, la mente e lo spirito si stavano ancora cercando. Mi diressi verso lui, ma non ero sicuro di quello che stavo facendo. Ero obbligato, come se una forza più forte mi stesse controllando. Come l’ape che torna all’alveare, dove ritrova sè e il suo vivere, io ero chiamato verso lui.

“Perché ora?” gli chiesi. Lui non si girò, rimase fermo a guardare il vuoto attraverso lo specchietto retrovisore, dicendomi: “E’ morto”. “Chi?” domandai. “L’essere, è morto”. “Che significa?”. “Avevamo tutto, ma ci siamo persi nei frammenti, nella lotta di supremazia per dei pugni di sabbia raccolti con mani bucate. Non-siamo perché come una pellicola che brucia continuiamo a scorrere, finché non rimane più nastro e ci esauriamo del tutto. Non c’è vita nel cambiamento e siamo noi a volerlo. Ma io so dove si trova, dove ,e non quando, si è. Lì dove puoi essere, perché sei nulla.”

Forse da sempre era lì o forse non mi accorsi che si mise una pistola puntata alla tempia. Piangeva, ma non lacrimava o lacrimava, ma non piangeva.

Non vedeva la vita nel cambiamento.

In quell’istante di morte non accadeva nulla, ma una vita era ac-caduta.

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